Prefazione

Prefazione di Antonio Polito.

La vita di Gianni Lettieri è interessante per due ragioni, che giustificano un’autobiografia come quella che state per leggere.

La prima è che, da molti punti di vista, l’autore è ciò che in America chiamerebbero un self-made man. Un uomo che cioè, per quanto questo sia possibile in Italia, si è fatto da solo. Uno che ha cominciato da ragazzo, nel ramo commerciale in cui lavorava il padre, e con l’ingegno e anche la furbizia tipica di un napoletano, si è trasformato in imprenditore, capace di uscire dall’ambito geografico e settoriale di partenza, e di aver successo. Questa attitudine, questo tipo di carriera, non è molto ben vista nel nostro Paese, e forse neanche a Napoli. Per quanto sia strano, da noi il successo non è molto apprezzato. O meglio, è apprezzato solo il proprio successo. Quello degli altri, soprattutto se vengono dal nulla, genera sempre sospetti. Se qualcuno ce l’ha fatta, deve essere sempre perché è stato aiutato, perché ha imbrogliato, perché ha rubato. È una sindrome psicologica, una forma di autodifesa, un modo di scusarsi con se stessi per i propri insuccessi, che ci rende così diversi da una società come quella anglosassone, dove invece il successo costruito con le proprie mani è un vero e proprio valore sociale, e perseguirlo è considerato un dovere verso gli altri, la forza trainante di una comunità. In America viene considerato un successo collettivo la somma di tutti i risultati individuali; qui da noi si confonde la giustizia sociale con la media di tutti gli insuccessi individuali. Ne consegue un habitat naturale in cui è difficile essere spinti verso il sacrificio, l’impegno, il talento e il merito: non c’è l’incentivo del consenso sociale. Che uno ce la faccia, uno come Lettieri, non piace a tutti. Anche a lui, come a molti, si applica la legge ferrea dell’invidia, che produce scetticismi, sospetti, quando non dicerie e calunnie.

La seconda cosa che merita di essere raccontata della vita di Gianni Lettieri, anche questa molto “americana” se così posso esprimermi, è che a un certo punto della sua vita ha sentito l’imperativo morale del give back, del restituire cioè alla comunità da cui ha tratto forze e risorse per la sua scalata, almeno una parte di ciò che gli è stato dato. Prima sotto forma di iniziative di mecenatismo e beneficenza, e poi sotto forma di impegno politico. Anzi, meglio: di impegno amministrativo. Lui spiega così la sua decisione di candidarsi alla carica di sindaco alle passate elezioni comunali di Napoli, sfiorando la vittoria al primo turno, e venendo poi travolto al secondo da quel fenomeno elettorale senza precedenti (se non forse nell’epoca laurina) che fu l’ex pm con la bandana. Qualcuno potrà obiettare che candidarsi a Palazzo San Giacomo non ha molto a che vedere con il give back, qualcuno dirà che magari Lettieri voleva andare al Comune per fare altri affari, per proseguire la sua carriera di imprenditore sfruttando anche il potere politico, seguendo le orme di un precedente illustre. Non posso escluderlo. Però ho visto il comportamento successivo di Lettieri, e mi ha convinto che la sua ambizione era genuina. Dopo la sconfitta, infatti, davo per scontato che avrebbe mollato, non appena fosse stato decente farlo, il Consiglio comunale, tornando ai suoi affari e a una vita che non sembra avere aver bisogno dell’indennità di consigliere per non essere grama. Magari, pensavo, si prenderà un seggio gratis al Parlamento, che pure gli era stato offerto, per accrescere il suo standing senza fare nulla per Napoli. Beh, Gianni Lettieri questa scelta non l’ha fatta. È rimasto in consiglio. Ha anche un po’ litigato con la sua parte politica, ha animato iniziative politiche di opposizione, ha promosso l’azione di un gruppo di giovani che è una delle poche scuole di politica a Napoli. Certo, lo fa perché vuole riprovarci, perché vuole correre di nuovo, perché spera di poter fare, prima o poi, il sindaco della sua città (e anche pubblicare un’autobiografia sembra essere un modo molto americano di annunciare una ricandidatura). Ma in questo che c’è di male? Chi dovrebbe fare politica a livello locale se non chi ha l’ambizione di guidare la comunità in cui vive?

Ecco perché, nel raccontare la sua storia, Lettieri punta tanto sull’immagine di scugnizzo cresciuto alla Duchesca, di napoletano tra i napoletani, di figlio del ventre della città e non di quella élite distante che abita su in collina, lì dove torna la sera a godersi il paradiso dopo aver maledetto l’inferno in cui vivono i suoi concittadini, invece di tentare di cambiarlo. La borghesia napoletana ha secondo me molte colpe dello stato in cui, innegabilmente, si è ridotta una delle più belle e magnifiche città d’Europa. Ha la responsabilità di non essersi fatta classe dirigente, di essersi ritirata e rinserrata, di essersi astenuta. Almeno Lettieri non l’ha fatto. Questo giustifica il piccolo peccato di orgoglio di mettere nero su bianco la sua vita.

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